Su Elisa Seitzinger molto è stato scritto in questi anni e molto ha detto lei stessa in diverse interviste spiegando a fondo genesi, significati, tecniche del suo lavoro.
Cosa aggiungere? La familiarità con l’arte antica, bizantina e medioevale sapientemente rivisitata in chiave contemporanea? Lo stile peculiare e inconfondibile che ne ha fatto una delle illustratrici di punta non solo nei confini della nazione? La cura del particolare nell’insieme dove anche il più piccolo dettaglio non è lasciato al caso? La meticolosa ricerca che sottende ogni lavoro? La presenza quasi costante della figura umana caratterizzata da una fluidità che trascende la materia? La curiosità verso l’esoterico e l’arcano che la spinge ad accettare di disegnare mazzi di tarocchi di volta in volta sempre più intriganti? L’ostentazione degli onnipresenti simboli? Tutto già detto. Mi piace aggiungere solo questo: Elisa, oltre ad essere un’artista facilmente definibile come carismatica, è una persona colta. Contraddistinta da quell’umanità sensibile, disponibile e attenta al mondo che la circonda, pure nella assoluta, ma discreta, coscienza del valore della propria opera che rivela i grandi artisti. Prevengo le polemiche: non che per essere artista occorra essere colti, ma quando anche nell’arte “mala tempora currunt” di sicuro giova.
L’apprezzamento che arride al suo lavoro non solo da parte di critica, addetti ai lavori e dei suoi stessi colleghi, ma soprattutto dal pubblico, persino quello meno avvezzo all’arte, ne testimonia la validità e soprattutto la capacità di toccare, a vari livelli, interesse e sensibilità di quanti si approcciano anche casualmente alle sue opere.
Nel biennio 2022-2023 una serie di importanti personali a livello nazionale – Ascoli Piceno, Domodossola, Parma e ora Torino – credo abbiano portato a una svolta nella concezione della sua arte. Il lavoro di ricerca che ha sostenuto l’attività espositiva ha contribuito a maturare in Elisa la coscienza, sin qui sottesa, di fare parte a pieno titolo del variegato mondo dell’arte contemporanea. Intendiamoci: non che l’illustrazione non sia da annoverarsi tra le arti – fortunatamente è in via di superamento la distinzione tra arti applicate, finalizzate a uno scopo utilitaristico e spesso commerciale, e arti “nobili”. Pare tuttavia ancora sussista il concetto che l’illustratore, che spesso illustra, per lo più su commissione, il lavoro di altri, sia artista per così dire a metà. Ma che le illustrazioni di Elisa non siano mai solo didascaliche è ovvio nella misura in cui sanno produrre sensazioni a volte contrastanti tra loro, grazie alla sensibilità dello sguardo che le coglie. E in questo senso le polemiche che hanno investito la mostra di Domodossola riguardo alcuni soggetti ne sono prova più che bastante.
L’intenzione di creare, in modo particolare per le esposizioni di Domodossola e di Torino, vere e proprie installazioni site specific, che divengono il cuore della mostra stessa, pur affiancate dalle tavole realizzate in veste di illustratrice, dimostra con evidenza il nuovo cammino intrapreso dall’artista che, ben lungi dal recusare la propria storia e vocazione, ne amplia il significato conferendo nuovo vigore e coscienza, con l’idea di obbedire a un intento puramente creativo e artistico, non vincolato cioè a esigenze esterne. E se il contenuto visivo non cambia in apparenza, a cambiare in modo significativo è la modalità espositiva, intesa non come mero esercizio ma sottesa da preciso concetto informativo, avvicinandosi ai modi dell’arte contemporanea.
A questa importante novità forse non a caso corrisponde un cambiamento nel trattamento delle figure: il tratto, per quanto sempre puntuale e sicuro, si è fatto più scarno, l’immagine meno densa di particolari, il colore, già fortemente protagonista, ancora più presente. Il tutto a rafforzare uno stile già ampiamente personale e unico.
Al di là delle motivazioni più profonde del concept che sottende l’istallazione nella Cavallerizza su cui torneremo, il titolo della mostra “Sacro Fuoco” diviene una sorta di manifesto. È il fuoco sacro che spinge l’artista a creare libero da vincoli, se non quelli imposti dal proprio sentire. Ma che altresì spinge chi artista non è a riconoscere l’arte e farne momento emozionale e formativo.
Quanto all’idea così la Seitzinger: “Ho percepito la Cavallerizza Reale come uno spazio onirico, che ha evocato nella mia mente il tempio descritto da Borges ne “Le rovine circolari”. Un luogo sacro, decaduto, dove il protagonista si reca per sognare. Il suo scopo è plasmare il sogno affinché viva di vita propria rendendosi conto che “l’impegno di modellare la materia incoerente e vertiginosa di cui sono composti i sogni è il più arduo che un uomo possa intraprendere”. Finché, dopo molto tempo, “nel sogno dell’uomo che sognava, colui che era sognato si svegliò”. Il protagonista sembra aver concretizzato una creatura emersa dalla sua immaginazione salvo poi, alla fine del racconto, comprendere che anche lui non è altro che un sogno.
“Sacro fuoco” è allora un’emersione nella materia di cui noi stessi esseri umani siamo fatti, l’immaginazione”.
Ed ecco che la Cavallerizza, complice la sua stessa conformazione architettonica, si trasforma nel tempio del fuoco dove il sognatore può sognare e prendere coscienza di sé. Al sonno presiedono gli archetipi umani che Seitzinger rielabora a partire dall’universo junghiano, concetti cui il sogno ha dato forma fisica. Mute, incombenti presenze a significare altresì la possibilità, anzi, l’intima esigenza di ognuno, di partecipare del fuoco sacro dell’arte in quanto rappresentazione della realtà mediata dall’immaginario visivo dell’artista. Le imponenti figure alle pareti, in qualche modo evoluzione degli arcani maggiori dei tarocchi, dove colore e forma la fanno da padrone, documentano quanto si diceva poc’anzi sul nuovo sentire dell’artista riguardo al trattamento delle immagini.