
The safest place
a cura di Valeria Radkevych e Michele Travaglio
Il progetto propone una riflessione sulla nozione di “rifugio” come dimensione fondamentale dell’esistenza, interrogando il confine sottile tra sicurezza e vulnerabilità. In un tempo segnato da dislocamenti forzati, precarietà ambientale e frammentazione sociale, ciò che un tempo conferiva sicurezza alla condizione esistenziale dell’uomo - continuità, stabilità, permanenza - si carica oggi di ambiguità, provvisorietà e tensioni.
Nel pensiero di Martin Heidegger, abitare significa essere nel mondo in modo autentico, radicati nella relazione con il paesaggio, con gli altri, con il tempo. Abitare non è semplicemente occupare uno spazio, ma custodirlo, prendersene cura, instaurare un rapporto di significato con ciò che ci circonda. Nel suo saggio “Costruire, abitare, pensare”1, il filosofo descrive l’abitare come l'essenza stessa dell'essere umano: non si abita per vivere, ma si vive perché si abita. Il rifugio, dunque, non è solo riparo fisico, ma spazio di senso, apertura al mondo. Tuttavia, quando questo radicamento viene spezzato – perché la casa è perduta, inaccessibile o resa instabile – si frantuma anche la possibilità di orientarsi nel reale. La dimora, luogo che custodisce, diventa allora figura della sua assenza, testimonianza della precarietà dell’esistere.
In questo quadro, il luogo sicuro emerge come paradosso: ci fonda, ma ci limita. Ci ospita, ma ci trattiene. Non è mai dato una volta per tutte, ma va costruito, protetto, continuamente negoziato. È spazio reale e insieme immagine mentale, fatto di materia e di affetti, di memoria. Non c'è rifugio senza esclusione: ogni spazio protetto implica un confine e ogni confine una divisione tra chi è dentro e chi resta fuori. La protezione, quindi, non è mai neutrale, implica dinamiche di potere, narrazione, appartenenza e l’elemento che protegge è lo stesso che espone o isola. Dunque, si può davvero essere al sicuro senza, al contempo, allontanare l’altro?
La sicurezza diventa così una forma del desiderio: è volontà di permanere in una condizione destinata a cambiare, è bisogno di luce contro il disgregarsi dell’essere. Il rifugio si rivela come condizione instabile tra quello che siamo e quanto sfugge, è, appunto, desiderio di trattenere contro l’inevitabile divenire delle cose.
Ogni sezione pone domande e non offre risposte definitive: chi decide cosa è sicuro? Qual è il prezzo della protezione? Possiamo costruire un rifugio che non escluda? Forse la vera sicurezza non sta nel fermare il tempo, ma nel riconoscere la transitorietà dello spazio e abitarlo consapevolmente. In questa prospettiva, abitare non è solo un gesto quotidiano, ma una pratica critica: implica la capacità di ridefinire continuamente il senso del rifugio, trasformando l’insicurezza in occasione di pensiero, relazione, resistenza.
ARTIST* IN MOSTRA:
Curatore e curatrici:
Valeria Radkevych e Michele Travaglio
