
Tra le ceneri, il Seme
a cura di Cristina La Piccirella, Debora Magno e Giovanna Tricarico
C’è un momento in cui tutto sembra finire, ma è lì che qualcosa ricomincia. Tutto nasce da un passaggio di stato, l’attraversamento di una soglia che separa la fine dal possibile. La stessa creazione si muove tra fragilità e rinascita, tra rovina e cura, lasciando che la materia si trasformi, che l’istinto diventi gesto, che ciò che era scompaia per accogliere ciò che sarà.
Dal latino destruĕre, composto da de e struĕre, il verbo “distruggere” non significa soltanto dissoluzione, ma anche costruzione. L’atto di disfacimento — lungi dall’essere una fine — si rivela principio: attraverso l’incisione, l'abrasione, l’alterazione, si apre lo spazio per qualcosa che ancora non esiste, quasi un’alchimia primordiale in cui da una condizione mediocre si transita verso una dimensione aurea, emancipata da impurità. Nel punto esatto in cui la materia cede, prende forma una nuova possibilità.
Ogni frammento contiene memoria e attesa. Tra ciò che viene meno e ciò che rinasce si estende un territorio fertile di contrasti: la cenere nutre, la maceria genera. Anche i materiali segnati dall’uso o vittime dell’abbandono si rivelano nuclei di rigenerazione. Il marginale può acquisire una diversa configurazione perché non esiste entità priva di valore: se si muta prospettiva, lo scarto diventa origine di senso. Il residuo non viene negato, ma accolto, diventando risorsa attiva, capace di agire, di orientare lo sguardo e il pensiero, di riscrivere relazioni e spazi da cui sviluppare una storia inedita. Il termine friche, coniato dall’antropologo Jean-Loup Amselle, racconta questo ambiente sospeso: un luogo incolto, lasciato a se stesso, che tuttavia diventa terreno di crescita spontanea. In quel confine, si dischiude un campo immaginativo in cui il vuoto accoglie, l’assenza indica. I segni dell’erosione diventano tracce di un tempo che seguita a produrre senso e nel ciclo eterno ciò che sembrava perduto ritorna in un’altra versione. Là dove l’equilibrio vacilla, si insinua il ritmo vitale che scandisce l’instabilità fertile del divenire. Come osservava Eraclito, «nessun uomo entra mai due volte nello stesso fiume, perché il fiume non è mai lo stesso, ed egli non è lo stesso uomo». Il fluire incessante ricorda che ogni trasformazione è parte di un processo che non si chiude, ma si rinnova. Non è un ritorno circolare, identico a se stesso, ma una traiettoria che si avvolge e si evolve: come una spirale, figura archetipica e universale che, nelle filosofie orientali, incarna l’idea di un mutamento costante e ascendente.
Il percorso espositivo racconta una continua metamorfosi: il battito di ciò che cambia forma, l’eco di una frattura che diventa respiro. Un invito a sostare nel punto esatto in cui le cose si spezzano per iniziare a vivere di nuovo. Materia fragile, oggetti dimenticati, simboli spezzati: tutto si rigenera. Ogni rovina è un seme, ogni gesto è una possibilità: non una fine ma un nuovo inizio.
ARTIST* IN MOSTRA:
Curatore e curatrici:
Cristina La Piccirella, Debora Magno e Giovanna Tricarico
