Giacomo Infantino

Preja Büia

di Giacomo Infantino

Testo critico a cura di Claudio Composti

Attraverso la fotografia e le le immagini in movimento, l’immaginario di Giacomo Infantino prende forma, cita, destruttura, rigenera e genera miti e mitologie che sono circondate da uno scenario naturale e apparentemente senza tempo, quasi archetipo ma in chiave contemporanea.

La luce ha un ruolo chiave nelle sue visioni. Non è la luce del sole, ma è quella che proviene dalle tenebre. È questo tipo di luce che permette di vedere l’oscurità, di guardarla dritto negli occhi. Ciononostante ci appare attraverso colori acidi ed elettrici con una forma artificiale, che ci suggerisce un dubbio ontologico riguardo la natura della sua provenienza.

Testo di Lidia Bianchi

Preja Büia

Testo critico a cura di Claudio Composti

PREJA BÜIA

Giacomo Infantino è un artista che utilizza la fotografia in maniera antropologica. Mi spiego.
Ciò che muove il suo lavoro è la specifica attrazione che ha per l’essere umano e il territorio che vive. Un territorio che vuole valorizzare, preservare e divulgare attraverso un approccio intimo, non scevro tuttavia da quegli aspetti più nascosti ed inquietanti dei paesaggi ancestrali che fotografa. Non perde mai l’attenzione verso l’essere umano che abita quel luogo e che interagisce con la natura, che lo circonda e lo influenza. Per questo dico che la sua è una fotografia antropologica. Giacomo narra il teatro della vita che si svolge spesso nelle pieghe della provincia italiana, un aspetto che lo ha sempre affascinato proprio per quegli aspetti più marginali e più oscuri che racchiudono tutti quei sentimenti primitivi che rimangono vivi e cocenti in fondo all’animo, ma che noi, gente di città, abbiamo cercato di soffocare o sublimare in una distante ed apparente educazione formale, pronti ad esplodere di colpo. Quasi avessimo preso le distanze da quei potenti moti dell’animo ed avessimo scambiato la genuinità e la naturalezza della vita semplice e selvaggia, a tratti spaventosa, in cambio dell’effimero e dell’agio cittadino. Giacomo vede i suoi personaggi e i suoi paesaggi come un tetraedro scomponibile e variabile, in cui sia il colore che luci che utilizza sono fondamentali. Sceglie la notte per scattare: è il momento preferito, perché rende l’atmosfera delle sue immagini ancor più misteriosa, proprio come inquietante e straniante è il sogno, momento in cui l’inconscio si affaccia al mondo, portando con sé quei “mostri” che si generano quando la ragione dorme.

Ed è il momento in cui tutto ha un significato archetipico. Così come la sua fotografia, quando ritrae luoghi naturali, come boschi, cave, grotte. Giacomo con le sue luci svela i mostri nell’ombra, attribuendogli nuovi significati e rappresentando così il complesso gioco tra interpretazione, realtà e immaginazione. In un attento lavoro di recupero antropologico-culturale, in cui la tensione al racconto è rielaborata attraverso la sua immagine, che si fa perno tra mito, paesaggio e l’uomo stesso, in perenne dialogo tra inconscio e suggestione. Come in Eyes Wide Shut, di S. Kubrik, in cui il giovane dottore, di ritorno a casa nella notte, non sa se quella maschera che trova sul letto sia frutto di un sogno o di qualcosa che ha vissuto davvero, così le immagini di Giacomo Infantino vivono al confine di un varco spazio temporale, tra vissuto e immaginato; luoghi sconosciuti, ma che sentiamo appartenerci. In fondo, il testo a cui si ispira Kubrik è “Doppio sogno” di Schnitzler.

E quando si sogna, dov’ è il confine tra vero e falso?

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Lidia Bianchi

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