L’opera di Valdis D’Onofrio si ispira allo Schiavo Morente di Michelangelo, sottoponendo però l’opera originaria a un procedimento di decostruzione tecnica. L’artista decide infatti di sezionare il volto della scultura, per crearne una sorta di maschera frammentata, a cui si aggiunge il movimento. Le porzioni del volto raffigurato si scompongono per ricomporsi in un moto cinetico di tipo rotatorio, senza, tuttavia, giungere mai alla compiutezza della scultura originaria.
Il movimento risulta inoltre intervallato da momenti di arresto, cosicché Il faticoso ruotare dello “schiavo morente”, appare come scandire un tempo interrotto da brevi pause, in cui le sue diverse sezioni si fermano, come sospese nel vuoto per qualche secondo, a comporre irreali e improbabili accostamenti di sue parti anatomiche diverse. All’immaginazione del fruitore è lasciata unicamente la speranza di una unità che tuttavia resta negli effetti avulsa dall’opera stessa. In quest’opera l’arte michelangiolesca è assunta, dunque, unicamente a metafora della condizione di scacco in cui vive l’uomo contemporaneo, mentre la tecnologia diviene strumento di reinterpretazione dell’opera scultorea del passato.