Cristina riproduce esattamente quegli scenari e ambientazioni, catturando donne nel loro habitat domestico o sulla soglia delle proprie vite casalinghe. Non è un caso: è infatti proprio in quegli anni che prende forma nell’immaginario collettivo, anche attraverso il linguaggio pubblicitario, un canone di bellezza estetico omologato, complice la stereotipizzazione della donna dipinta come angelo del focolare, moglie, madre e oggetto. In una società come quella attuale che impone la rincorsa di una bellezza perfetta, si ha davvero bisogno di mostrare il proprio volto? O piuttosto ha senso mostrare ciò che chi guarda si aspetta di vedere? L’equilibrio è precario, la tensione è instabile: ogni scatto rivela cortocircuiti, imperfezioni come smorfie o dettagli stridenti che aprono uno squarcio sulla realtà. La fotografia d’archivio diventa così una “toppa visiva”, un espediente per raccontare il mondo desiderato, agognato che non sempre riesce però a celare la vera identità del soggetto. Il nostro sé pubblico e la nostra voglia di essere visti trovano la loro massima forma di espressione nel selfie che sembra ormai non essere più sufficiente a restituire la migliore immagine di noi stessi: benvenuti nell’era del “post-selfie”.