Così inizia a descrivere la sua dipendenza: segna l’ora e la data di ogni tazza di tè bevuta, annota se in compagnia o in solitaria e i relativi pensieri di quel momento, poi ne conserva ogni bustina svuotata del contenuto vegetale e la utilizza come materiale per la realizzazione di una scultura che richiama la muta di serpente. Trova una forte connessione con questo animale, conosciuto per il suo continuo rinnovamento che lo porta all’abitudine, o meglio alla necessità di cambiare completamente la sua pelle. In maniera analoga nella mitologia l’uroboro è simboleggiato da un serpente che si morde la coda ed è l’incarnazione dell’infinito, quindi della continua ripetizione. Ma “Lui, Oscar”- chiamato così dall’artista per “non prendere troppo sul serio la questione”- ha invece un inizio e una fine, diventa l’animale emblematico della ricerca ed Elisa cuce a mano, bustina dopo bustina attraverso un gesto ripetitivo e ossessivo, una muta lunga 15 metri.
Al termine di questo percorso liberatorio ogni pensiero è pronto per essere metabolizzato: lo incide con inchiostro edibile su carta di riso e lo ripone dentro capsule vegetali pronte per essere digerite e, di conseguenza, espulse definitivamente.
In parallelo a questo viaggio catartico dai toni alienanti e un po’ maniacali, crea un’installazione sonora decontestualizzata dall’immaginario collettivo, trasportando il partecipante in una nuova atmosfera più organica nella quale la ripetizione diventa la cura.
A cura di Cristina Meli